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Si-Kaddour-Benghabrit-01

Dal 1948, anno di proclamazione della nascita dello Stato di Israele, le vicende storiche e sociali di quella striscia di terra che si affaccia sulle coste del Mediterraneo orientale sono state connotate da elementi tristemente ricorrenti: intolleranza, odio, violenza. L'escalation delle violenze nei territori palestinesi rende quasi impossibile immaginare che sia mai esistita una qualche forma di solidarietà tra ebrei e musulmani.

Eppure vi sono storie che raccontano qualcosa di diverso e che spesso rimangono relegate ai margini della narrazione ufficiale. Quella dell’imam Si Kaddour Benghabarit  parla di una sensibilità diversa, capace di andare oltre le divergenze di credo e nazionalità, anche a costo di mettere a repentaglio la propria vita.

Nato in Algeria nel 1868, Kaddour aveva ricevuto la tipica educazione musulmana ma con uno sguardo filo-francese conforme alla mission civilisatrice imposta dalla Francia alle sue colonie. Arrivò nella capitale come diplomatico e nel 1920 avviò la costruzione della Grande Moschea di Parigi, la terza più grande in Europa, che inaugurò insieme a un istituto per aiutare i musulmani in città e favorire la loro integrazione nel paese.

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale e la capitolazione della Francia alle armate tedesche l’imam si mobilitò per assistere tutta la comunità, anche le famiglie ebree che vivevano a Parigi. Falsificò documenti per farle passare come musulmane, le nascose nella moschea durante le ronde della polizia e le fece fuggire dal paese con la collaborazione della resistenza. Le somiglianze tra ebrei e musulmani negli usi, nei costumi, nelle abitudini alimentari e persino nei nomi favorirono il camuffamento. La Gestapo aveva dei sospetti sull’imam, ma non lo arrestò mai.

Non sappiamo quante famiglie abbia realmente aiutato, alcuni parlano di 1600 ebrei mentre stime più modeste ne ricordano “solo” 500.

È scritto nel Talmud che «chi salva una vita salva il mondo intero»: sacrosanta verità, ma se viene accostata alla figura di un imam musulmano che scelse di schierarsi dalla parte degli indifesi rimaniamo sorpresi. Forse ci colpisce che sia riuscito ad andare oltre le differenze di credo, che abbia messo a repentaglio la propria vita – lui tra i più importanti esponenti nella comunità musulmana di Francia – per salvare degli ebrei. Probabilmente vide solo dei fratelli dove altri vedevano un nemico da combattere.

Toccanti le parole che scrisse all’indomani del rastrellamento al Velodromo d’Inverno a Parigi:

In esilio come noi, lavoratori come noi, sono i nostri fratelli. I loro bambini sono come i nostri bambini. Chiunque incontri uno di questi bambini deve dargli rifugio e protezione per quanto la disgraziata sorte o la pena dureranno.

Se siete curiosi di sapere di più sulla sua storia potete guardare il film Les Hommes libres diretto dal regista marocchino Ismaël Ferroukhi e presentato al Festival di Cannes nel 2011.

Articolo di Martina Betti