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Il Racconto del Ricamatore è la traduzione di The Embroiderer’s Tale, tratto da Refugee Tales III (Comma Press, 2019) e scritto da Patrick Gale, prolifico autore britannico. Patrick presiede il North Cornwall Book Festival, patrocina il Penzance LitFest e dirige l’Endelienta e il Charles Causley Trust.

Il racconto del ricamatore

E sì. Lo so che non è grammaticalmente corretto in inglese. So che non dovrei cominciare ogni frase con ‘E sì’, ma sono delle bellissime parole. E: promette che ne verranno ancora.  Sì: un sorriso a forma di parola, che solleva gli angoli della bocca, una stretta di mano, un cenno del capo, braccia spalancate in segno di benvenuto. In farsi la parola equivalente è piuttosto diversa. E sì.

Quindi vi prego di assecondarmi. Lasciata l’Italia alle spalle, di cui magari vi dirò dopo, mi ritrovo a usare belle parole, anche se a volte non hanno un senso compiuto. Inghilterra è un’altra bella parola, sto iniziando a rendermene conto, come “torta” e “passeggiata”.

Da quando me ne sono andato di casa, ho imparato varie cose, oltre all’inglese. Ho imparato che l’ospitalità offerta da uno sconosciuto è una cosa che trascende palazzi sontuosi.  Ho imparato che i cani possono farti compagnia. E ho iniziato a rendermi conto che avere mani immacolate è un lusso che supera ogni festeggiamento.

E sì, sono iraniano, di Teheran. Mio padre, mio nonno e il mio bisnonno erano sarti di mestiere. Uomini iraniani vestiti in modo molto tradizionale, come credo abbiate notato se seguite i notiziari con attenzione, ma con una debolezza per un tessuto ben scelto e un orlo ben fatto.

Anch’io ho imparato il mestiere di famiglia. Avevamo così tanto lavoro che mio padre dirigeva una sartoria e io un’altra, più o meno da quando smisi di andare a scuola. Ero giovane per avere dipendenti, ma ero sicuro di me e mi son guadagnato il loro rispetto perché ero un bravo sarto. Sono un bravo sarto. Datemi un gomitolo di lana invernale pesante o un pezzetto di seta estiva leggera e subito le mie dita esperte sanno come usare le forbici, come far risaltare le spalle, che filo usare per cucire e quali bottoni. Secondo me, la maggior parte degli inglesi si vestono come bambinoni, solo colore, senza forma.

Ero un bravo ragazzo. Coscienzioso. Andavo a pregare alla moschea, onoravo il Profeta, lodavo il suo Santo Nome, e ubbidivo a mio padre e mia madre. Mia madre era una donna pia e non osavo fare nulla che potesse turbarla. Leggevo solo testi scolastici, evitavo internet, ascoltavo solo canzoni che mia madre approvava e non andavo mai al cinema. La mia unica debolezza, da lei incoraggiata, era il calcio (perché credo che segretamente le piacesse ammirare le gambe snelle dei giocatori, anche solo da dietro il chador). Avevo piedi svelti, precisi con la palla come le mie dita lo erano con l’ago, e giocavo spesso.

E sì, poi ho conosciuto Maryam. Mentirei se non vi dicessi che da allora ci sono state molte occasioni in cui ho desiderato non averla mai incontrata. Sarei ancora a Teheran con la mia famiglia, magari sposato con figli, perché mia madre e le mie zie stavano già iniziando a fare progetti e preparativi per trovarmi la ragazza che fosse più consona.

Ma grazie a quello che Maryam ha messo in moto, ho iniziato a rendermi conto che c’è una ragione per ogni cosa. Timothy, l’uomo con cui vivo adesso, in bagno ha appeso una cartolina con la scritta: “Non sei arrivato qui per caso”.

Maryam era armena. Lo capii dal cognome ancor prima che arrivasse al lavoro. Ma io, a differenza di mia madre, non ho pregiudizi; sono un artigiano e rispetto le doti di chiunque.

La sottoposi alla solita prova, disfare un orlo e ricucirlo lungo una linea marcata con il gesso. Lo fece con rapidità e precisione; a malapena si vedevano i punti.

«Cos’altro sai fare?» le chiesi.

Mi guardò con gravità e disse: «So rammendare senza che si noti».

«Vediamo» dissi.

Allora lei disse: «Strappi qualcosa, la prego».

Bucai il tessuto che aveva appena cucito e pareva che si fosse impigliato in un filo spinato. Dal suo piccolo kit ordinatissimo estrasse l’ago e la spola con avvolto un filo trasparente. In dieci minuti non avreste mai detto che il tessuto era stato bucato. E sì, decisi di assumerla.

Era brava nel suo lavoro ed era curioso che le altre donne alle mie dipendenze, tutte musulmane e tutte velate, facessero molto più chiasso di lei: chiacchieravano, pettegolavano e si lamentavano di continuo mentre cucivano, come se i loro veli fossero muraglie dietro cui potevano dire quello che volevano. Ma Maryam, seduta dietro di loro, era… Come dire? C’è una bella parola inglese, come la lana vergine più soffice. “Demure”. Lei era posata: gli occhi rivolti verso il basso, quieta, il viso illuminato da un sorriso quando le altre donne raccontavano qualche storia.

Quando arrivò il primo stipendio, le feci i complimenti e le chiesi se le piacesse il lavoro e lei, abbassando il capo, disse: «Sì. Le sono molto grata». Ma mi guardò di sfuggita, con quegli occhi verdi come susine acerbe, non castani come quelli dei miei familiari. E sì, quando arrivò lo stipendio seguente, indugiò dietro alle altre per essere l’ultima in fila. Mentre afferrava la busta paga, disse che suo zio, che l’aveva accolta in casa perché era orfana, aveva piacere a invitarmi a cena per ringraziarmi di averla assunta.

Così ci andai. 

Dissi a mia madre che andavo a giocare a calcio e ai miei compagni di squadra che avevo una festa in famiglia, e ci andai. Suo zio viveva in una casa vecchia con un cortile ricolmo di alberi da limone attorno a una fontana ornata con azulejos. Era un giorno speciale per loro, celebravano la Pasqua.

E sì, me lo spiegarono a tavola e Maryam raccontò delle storie, e io mi innamorai di lei. Facile come infilare un guanto. Lei era a suo agio, non come al lavoro, perché era in famiglia. Sorrideva spesso e il suo sorriso affascinante era dolce come una pesca a tal punto che mi dovetti sforzare per distogliere lo sguardo da lei.

Al momento del dolce, mi accorsi che erano arrivate altre persone. La casa dello zio era una chiesa segreta, una sorta di setta, come si dice in Iran, e questi uomini non erano cristiani dalla nascita, come Maryam, ma provenivano da famiglie musulmane. Erano apostati, come diceva mia madre.

«Vieni con noi?» domandò Maryam. «A mezzanotte è Pasqua.» Sorrise, e aggiunse: «Ci saranno dolci per l’occasione». E sì, mi resi conto di quanto si fidasse di me perché una sola parola avrebbe provocato l’arresto di quelle persone.

Così rimasi per la celebrazione della messa, in una sorta di seminterrato nella parte più antica della casa, dove le candele illuminavano il soffitto a volta. Era bello, forse proprio perché era un luogo segreto, come una bella donna sotto il chador.

Quando Maryam mi salutò sulla porta di casa, mi baciò con delicatezza sulla guancia e disse: «Buona Pasqua e che Dio ti benedica». Quel bacio, l’aroma del suo profumo e l’insolita sensazione nel risponderle: «Buona Pasqua» mi stordirono a tal punto che guidai a casa senza pensare a come affrontare le domande di mia madre. È probabile che le mie risposte vaghe la insospettirono.

E sì. Ci tornai. Certo che lo feci. La mia vita parallela, gestire l’azienda, pregare il venerdì con mio padre, giocare a calcio con i miei amici, divenne come un tessuto sbiadito al sole.

Maryam ricambiava i sentimenti che provavo per lei, ma disse che avrei dovuto convertirmi per poterci sposare. Non mi era nemmeno passato per la testa che potessi fare entrambe le cose. Così fui battezzato nella chiesa segreta di suo zio. Quella volta mi baciò sulle labbra e mi regalò una Bibbia tutta per me. E nonostante potessimo essere noi stessi solo a casa di suo zio, i nostri bisbigli mentre cuciva sul lavoro divennero elettrici come gli occhi di una donna quando il resto del viso è velato.

Cominciai a sognare di trasferirci in Libano o magari in Egitto per stare insieme. Sogni folli, adesso me ne rendo conto, ma ero innamorato e gli innamorati sono un po’ matti.

E sì, andò tutto storto in un battibaleno, come un pezzo di seta che scivola giù dal tavolo quando ti dimentichi di puntarlo.

Stavo giocando a calcio con i miei cugini e alcuni amici. Era una serata calda e stavo giocando bene. Avevo segnato tre goal. I riflettori sul campo facevano scomparire la città intorno a noi. Il campo sembrava un palcoscenico su cui non si poteva eludere niente. Nessuno dei miei amici sapeva di me e Maryam. Era troppo pericoloso. Custodivo questo segreto accanto al mio cuore, insieme al piccolo crocifisso d’argento che mi aveva dato.

All’improvviso il ragazzino della porta accanto era lì, a bordo campo, in bicicletta. Era sempre in bici, faceva commissioni e pettegolava.

«Hey, Mahdi!» disse così forte che tutti lo udirono. Ghignava. Per un momento anch’io sorrisi. «Tua madre è impazzita e ha chiamato la polizia. Ha trovato una Bibbia in camera tua.»

Il gioco si fermò. Mio cugino insultò il ragazzo, ma il mio migliore amico, Parvaz, capì subito che era una cosa seria. «Non puoi restare qui» mormorò, «verranno a sapere che sei qui.»

Mi precipitai a casa di Maryam. Non so come, ma erano già al corrente. Maryam non c’era. Non c’era tempo da perdere. Suo zio mi diede un pile e dei pantaloni lunghi in caso mi venisse freddo e mi caricò in macchina, destinato al confine. Avevo la mia carta d’identità, ma non il passaporto e nemmeno contanti. Ero benestante. Se fossi riuscito ad andare in banca, avrei prelevato dei soldi, ma indossavo vestiti sportivi e non avevo niente con me. Suo zio disse che aveva già pagato lui e di non preoccuparmi.

«Dio provvederà» disse.

Aveva pagato un agente, disse, poi mi ficcò una borsa piena di viveri in braccio e una busta piena di euro. Non avevo mai viaggiato. Non avevo idea se fosse una piccola somma o un sacco di soldi.

Il conducente non parlava. Disse che era più sicuro così, in modo tale da rimanere anonimi. Si limitò a guidare e scegliere la musica. Guidò per parecchio tempo. A un certo punto, a notte fonda, abbandonò la strada principale per imboccarne una sterrata e continuò a guidare con le luci spente, al chiaro di luna. Ero spaventato, ma lui disse che era meglio così perché eravamo vicini al confine.

All’improvviso si fermò al buio per guardare il telefono. Lesse un messaggio, accese i fari e li spense subito. Lì vicino altre luci lampeggiarono. Scendemmo dall’auto. Al chiaro di luna vidi un camion sotto agli alberi.

«Benvenuto in Turchia» disse l’uomo. Mi disse di pisciare contro un albero perché sarebbe stato un lungo viaggio, poi mi aiutò a salire sul retro del camion facendo luce con la torcia. C’erano solo cassette di frutta. Arance e pomodori, credo. L’odore era pungente. E, nel mezzo, un materassino.

Mi sedetti sul materassino e l’uomo sistemò le cassette per nascondermi. Poi si mise al volante.

Credevo che non sarei riuscito a dormire per via del chiasso e dell’odore, e il timore che le cassette di frutta mi piombassero addosso. Invece mi addormentai e persi la cognizione del tempo a causa dell’oscurità. Mi domandai se fosse un grosso sbaglio, ma poi mi resi conto che non aveva senso pensarci, poiché ero impotente come le arance e i pomodori. Non potevamo fermare il camion.

A un certo punto, mi svegliai quando aprirono i battenti del camion e udii il camionista parlare con un altro uomo in una lingua che non capivo, turco forse. E poi mi svegliai ancora quando salimmo a bordo di un’imbarcazione. Il camion ondeggiava da una parte all’altra e vomitai sotto il materassino. Mi sentivo male.

Poco dopo, sbarcammo e il camionista mi fece uscire. Disse che eravamo in Italia, quindi ero al sicuro. «Ma non dare le tue impronte digitali o dovrai rimanere qui» disse. «Ci hanno pagato per portarti in Inghilterra.»

Poi si allontanò in una direzione e io in quella opposta. Mi misi in fila con altre persone che erano a piedi come me.

E sì, mostrai la mia carta d’identità e mi ricordai di sorridere e tenere la testa alta perché l’Italia è un paese cristiano e sarei stato al sicuro lì. Ma c’era qualcosa di strano. Mi urlarono contro, mi acchiapparono e mi misero su un camion insieme a degli africani, tutti spauriti, tutti che parlavano lingue che non conoscevo. Ci condussero alla stazione di polizia e ci rinchiusero in cella.

La mia cella era grande quanto un armadio. Faceva caldo, mancava l’aria e non c’era un materasso, solo una panca dura. Se avevo bisogno del bagno, dovevo gridare e supplicare. Mi portavano in un posto senza porta né lavandino e a volte nemmeno carta igienica. Non mi sono mai sentito così sozzo. Quando mi portavano da mangiare, era pane e formaggio, dovevo mangiare con le mani sporche e temevo di ammalarmi.

Rimasi lì per giorni. Nessuno parlava farsi, solo italiano. A volte provavano a parlare inglese, ma conoscevo solo qualche parola.

«Firma qui!» ripetevano. «Sign!» Volevano le mie impronte digitali e io non volevo darle.

Alla fine cedetti, avrei fatto qualsiasi cosa pur di uscire, anche se avevo paura di dover rimanere in quel paese orribile. Presero le mie impronte e all’improvviso sorridevano facendo spallucce. Mi rilasciarono in strada. Mi lavai le mani e la faccia in una fontana gelata e mi dissetai. Poi andai in chiesa a pregare. Dopodiché, mi sedetti su una panchina fuori dalla stazione di polizia ad aspettare.

A quel punto un automobilista si fermò. Sapeva il mio nome. Era venuto tutti i giorni alla stessa ora. Non parlava farsi, ma aveva un foglio di carta con frasi copiate da internet in varie lingue che potevo indicare. Una volta saputa la mia lingua, indicò, «Chiamami Piero» e «Sono stato pagato per portarti in Francia» e «Non ci sono più frontiere fino all’Inghilterra!»

Guidava un pulmino. Andammo a prendere altre persone in un parcheggio a più piani. Uomini, donne e bambini. All’inizio, nessuno parlava a parte quelli che viaggiavano insieme. Eravamo tutti tesi, in particolare quando il conducente vide un poliziotto e, gesticolando, gridò: «Giù! Giù!» Ci buttammo a terra per non essere visti. E così fu per tutto il tragitto fino in Francia.

A volte ci rilassavamo e qualcuno cantava o provavamo a comunicare gesticolando. Sembrava di essere in gita, per quanto insolita, ma quando avvistavamo poliziotti armati, ammutolivamo, nascondendoci dietro alle lise tende arancioni del pulmino.

Quando l’autista si fermava a riposare o a mangiare o quando dovevamo fare i nostri bisogni, erano ovvio che temevamo di essere lasciati per strada. Nessuno parlava farsi, quindi mi sentivo molto solo nel gruppo. Avevo paura che mi dimenticassero e mi abbandonassero in autostrada. Durante il viaggio fino in Francia, la maggior parte delle persone scesero dal pulmino per salire su altri camion. Al tramonto ci inoltrammo in un vasto bosco.

Piero aveva l’aria seria al consegnarmi ad altri uomini. Controllarono la mia carta d’identità e mi fecero molte domande che non capivo. Sembravano ostili. Anche loro erano spaventati. Non avevamo niente da mangiare.

E sì, dormii in una piccola tenda con varie persone. Uno non riusciva a smettere di piangere, anche quando gli altri lo sgridavano. Credo che piangesse per la morte di qualcuno.

Ci svegliammo con l’arrivo di un camion. Dovemmo infilarci in casse di legno. Ci indicarono i fori per l’aria, affannandosi per spiegare. Poi diedero una bottiglietta d’acqua e una vuota a ognuno di noi. Gesticolarono per mostrarci a cosa servivano quelle vuote. Ci chiusero dentro alle casse e ci caricarono sul camion in mezzo ad altre casse che contenevano altre cose. Non persone. Non ho paura del buio. Non tanto. Ma sono alto e abituato a muovermi di continuo. Se ti viene un crampo quando non puoi allungare le gambe, fa male.

Persi la cognizione del tempo a causa dell’oscurità. La batteria del mio telefono era scarica, quindi non avevo luce. Ci imbarcammo un’altra volta, ma non vomitai, forse perché ero a stomaco vuoto. Quando attraccammo, il camion cominciò a muoversi. Ero convinto che ci sarebbe stato un controllo. Ero convinto che avremmo udito delle urla e delle schegge di legno, ma no, il trasporto continuò per un paio d’ore. Alla fine ci fermammo e le casse di legno furono aperte, finalmente. La gente parlava nella propria lingua. «Hemel Hempstead» diceva un uomo, nervoso.

«Hemel Hempstead. Inghilterra. Vai. Vai, adesso!»

Quando fu il mio turno per uscire, mi disse la stessa cosa: «Vai. Sbrigati!» Ma avevo le gambe indolenzite e mi muovevo a malapena, allora mi aiutò a scendere a terra prima di andarsene. Eravamo in un parcheggio in una città. Era notte. All’orizzonte si vedevano lampioni e uno stradone. 

Mi ritrovai su una via normale con alimentari e negozi. C’era traffico e un via vai di persone, così potevo sparire come un filo in un pezzo di feltro. Provai a non fissare lo sguardo su ogni cosa. Ero preoccupato perché ero stravolto e sudicio.

Udii un uomo e una donna parlare farsi. E sì, ero così sorpreso che sorrisi, sebbene stessero bisticciando. Lui mi vide e si interruppe per salutarmi: «Ciao, amico mio.»

«Ciao» dissi.

La donna mi guardò con sospetto e gli disse: «Faremo tardi.» Ma lui mi guardò con gentilezza e disse:

«Sei appena arrivato, vero?»

«Sì» dissi.

«Conosci qualcuno qui?» chiese. «Hai amici o familiari?»

«No» risposi. Allora annotò il suo numero, sebbene la donna gli razzolava attorno come una gallina stizzita.

«Telefonami» disse. «Mi chiamo Arsham. Adesso hai un amico qui.»

Infilai il suo biglietto nel calzino dove tenevo anche i soldi e provai a comprare del cibo, ma non accettavano euro. Poi una poliziotta nelle vicinanze mi prese per il braccio.

Qui ogni viandante, ogni rifugiato, ha la propria storia, più unica che rara. Il guaio è che tutte le storie diventano la stessa storia allo stesso modo perché tutte, prima o poi, si riducono a un camion, una cassa, una cella.

Secondo loro non era un carcere. Quando finalmente mi trovarono un interprete che parlava farsi, mi spiegò che era un centro detentivo per gente come me che non aveva nessun garante.

Le spiegai tutto. Non tralasciai nulla, a parte le impronte digitali in Italia perché temevo mi ci rispedissero, e Arsham, perché continuavo a pensare a sua moglie e a quanto fosse impaziente mentre mi lasciava il suo numero. Lui sembrava gentile ma lei era vestita come mia madre. Sapevo che mi avrebbe considerato un apostata.

Ma continuarono a chiedermi: «Puoi chiamare qualcuno? Non conosci nessuno?»

Il centro detentivo, situato vicino a una grande aeroporto, era meglio di un carcere, credo. C’era cibo a sufficienza e i letti non erano scomodi. Ma era come un carcere perché non potevamo uscire e uomini e donne erano separati come in una moschea. C’erano aspetti positivi. Potevo giocare a calcio tutti i giorni nel cortile, che pareva una gabbia. Però è utile quando tutti parlano lingue diverse. Potevo anche andare alla cappella e professare la mia fede cristiana. Cominciai a imparare l’inglese come si deve. Tutti i giorni.

Ma c’erano anche aspetti negativi: la noia, il sentirsi inutile e la violenza. A volte ci azzuffavamo giocando a calcio o in mensa.

Mi svegliavo di soprassalto per via degli incubi, in un bagno di sudore, urlando, e anche gli altri urlavano o battevano sulla porta. Era difficile non piangere, soprattutto nella cappella. Ci andavo, non solo per parlare con Dio, ma perché era vuota e piena di pace. Quando mi mettevo a piangere, era difficile smettere.

Alla fine dissi: «Sì. Okay. Va bene. Posso chiamare il mio amico Arsham». Allora mi diedero un telefono per contattarlo, presi il biglietto col suo numero e tra me e me pregai che rispondesse, e quando lo fece, mi venne da ridere, e risi perché ero contento che non fosse quella scorbutica di sua moglie. E sì, capì subito chi fossi e con molta calma, come un saggio mullah, mi disse di lasciarlo parlare con loro.

Fu molto generoso. E anche Shideh, sua moglie, anche se non mi voleva a casa loro. Forse lei è stata la più generosa proprio perché non mi voleva a casa loro.

Alloggiai nella camera degli ospiti per otto settimane intere. Provai a ricompensarli, ma Arsham prese il mio denaro solo per cambiarlo in sterline. Mi sfamarono, mi portarono in biblioteca a leggere e prendere lezioni di inglese da una volontaria che lo faceva per amore, come le nonne. E mi ricordavano quando dovevo fare quel lungo viaggio in treno e in autobus per andare in commissariato a firmare un modulo e rispondere a domande che cominciavo a capire. Ma la gentilezza più grande fu portarmi all’entrata della chiesa nel loro quartiere, perché entrambi erano musulmani.

In chiesa feci amicizia, soprattutto con Timothy, che mi fece da garante quando mi riportarono al centro detentivo perché una volta mi ero scordato di andare a firmare. Ero malato e piangevo in camera mia. E sì, alloggiai a casa di Timothy nella stanza degli ospiti e lui disse che non dovevo pagargli l’affitto e mi aiutò a fare domanda per l’asilo politico.

Mi ha aiutato tantissimo. Si accorse che avevo bisogno del mio lavoro, anche se non mi era permesso guadagnare. Mi diede la macchina da cucire che apparteneva alla sua defunta moglie e cominciai a rammendare vesti sacerdotali e confezionare vestiti per chi ne aveva bisogno.

Un giorno mi vide lavorare sull’altare, il cui paliotto era molto vecchio e la decorazione era stata rovinata dalle tarme. Mi stavo scervellando su come ripararlo perché non era il genere di lavoro che ero solito fare.

Mi insegnò due parole, così su due piedi, e le scrisse sul mio taccuino: “tapestry”, che significa arazzo, ed “embroidery”, che significa ricamo. Il verbo “embroider” vuol dire anche inventarsi delle storie, o meglio, abbellirle, cosa che mi piace un sacco.

Mi mostrò delle immagini su internet. Mi piacque un arazzo che sembrava un dipinto ma era fatto tutto di seta, e lui disse: «Oh, possiamo andare a vederlo facilmente».

Allora mi portò all’Hampton Court e mi spiegò la storia di questo sontuoso palazzo – perlopiù non capivo cosa mi stava dicendo, ma era vedovo e aveva bisogno di parlare e gli piaceva raccontare storie. Lì c’erano arazzi enormi, le cui bellissime illustrazioni erano più alte di noi. Timothy rise quando provò a mostrarmi il resto del palazzo e dei giardini, che erano di una bellezza insolita, ma io continuavo a chiedergli di andare a vedere gli arazzi.

«Vuoi imparare?» mi chiese. «Gli uomini possono imparare come le donne.»

Allora dissi: «Sì. Sì, per favore.» E così mi iscrisse al corso della Royal School of Needlework.

Le lezioni si svolgevano all’ultimo piano del palazzo. E sì, di solito sono l’unico uomo lì, ma non m’importa perché le signore sono molto gentili e mi dicono che ho un dono, come ce l’avevo per il calcio.

Se il centro detentivo era una sorta di inferno, la scuola di cucito è una sorta di paradiso, e non solo perché si trova in alto, accanto alle nuvole. Le pareti di tutte le stanze sono bianche, mettendo in risalto i cassetti di vetro in cui si vedono la lana e la seta, di tutti i colori dell’arcobaleno.

C’è un silenzio religioso, perché siamo assorti nel cucire fiorellini, foglie e uccellini, e c’è pace, come un giorno d’estate senza vento, ed è anche pulitissimo, perché ci esortano a lavarci le mani molte volte al giorno per non macchiare i tessuti.

La mia prima creazione fu una rosa rossa, e usai più tonalità di rosso di quelle che riesco a tenere a mente. Ero convinto di aver fatto molti errori, ma le mie compagne mi circondarono, tubando come colombe in un cortile afoso. Vogliono che resti.

Vogliono che faccia il corso di abilitazione all’insegnamento. E sì, vogliono che racconti loro la mia storia. Ma io svelo solo alcune parti, qua e là, perché mi rattrista troppo.

È brutto essere triste. Timothy mi portò dal dottore, perché certi giorni mi sentivo come se una nuvola pesante mi impedisse di alzarmi dal letto. Mi diedero delle pastiglie che mi aiutano un po’. Ma non funzionano per gli incubi e i brutti ricordi. I camion. Il bosco. L’Italia.

Timothy mi consigliò di scegliere un cane in un posto che assomiglia a un centro detentivo per cani, un posto terribile colmo di tristezza e latrati. Tina è minuta, col pelo marrone ispido e gli occhi color caramello. È un "bastardino" ma mi pare una brutta parola e io la chiamo Tina. Timothy dice che è nostra, ma io so che in realtà è mia perché la porto fuori io, le do da mangiare e la spazzolo. Sembra che abbia scelto me, dice, perché dorme fuori dalla mia stanza, vicinissima alla porta. E se mi sveglio con la triste nuvola sopra di me, lei lo avverte e mi sprona e mi lecca le dita dei piedi e delle mani, e anche le orecchie finché mi alzo per portarla a spasso. Tina è meglio di una pastiglia. E sì, la stringo forte a me, sebbene in Iran mi abbiano insegnato a non toccare mai i cani, ma lei mi fa sentire meglio. Mi fa sentire il presente, al posto del passato.

Timothy mi dice di chiamare mia madre per dirle che sto bene e a volte ci sono quasi riuscito. Ma poi mi ricordo che è stata lei a chiamare la polizia quando scovò la mia bibbia. Mi chiede se voglio chiamare Maryam, se mi manca tanto. E sì, quasi ci riesco, ma ora lei sembra così lontana, come una minuscola sagoma in una foto appesa al muro, in una grande cornice dorata. A volte penso che Maryam fosse un angelo, il cui mistero consiste nell’accettare lavori a Teheran per far innamorare i ragazzi musulmani e convertirli al cristianesimo. Immagino che adesso lavori da qualche altra parte, ringraziando timidamente qualche ragazzo che non smette di fissarla nella speranza di farsi notare.

Invece, io provo a essere come Tina, e pensare solo al presente. E al futuro. Il mio prossimo ricamo. La prossima passeggiata lungo il Tamigi.

Mi lavo le mani ogni volta che posso. Timothy usa il sapone di marca, che è marrone e profuma di spezie e pellame. Il sapone alla scuola di cucito profuma di lavanda. Mi annuso le dita e profumano di sapone. Guardo in fronte a me, o in basso cercando gli occhi color caramello di Tina oppure osservo da vicino i punti blu e viola che sfioro con le dita. La vita è bella.

E.

Sì.

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Traduzione di Elena Bossi