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Stretto di Messina

Il Racconto del Migrante è la traduzione di The Migrant's Tale, tratto da Refugee Tales (Comma Press, 2016) e scritto da Dragan Todorovic, autore pluripremiato e docente di scrittura creativa all'università del Kent a Canterbury. La raccolta si ispira a The Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer sia nel contenuto sia nella forma. L'obiettivo del progetto è di eliminare la politica di detenzione indeterminata nel Regno Unito.

 

Qui comincia il Racconto del Migrante.

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Viveva una volta in Siria una compagnia di ricchi negozianti, gente seria e onesta.

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Ci sediamo in un ufficio al secondo piano sull’angolo di un edificio a Birmingham. Questa è una zona di impiegati e di vie frequentate dai Pink Floyd. Le veneziane metalliche sono tutte abbassate. Appoggio la torta al cioccolato che ho comprato per Aziz sul tavolino e mi pare subito un gesto inopportuno. Panna sul dolore.

Il nostro interprete indossa un completo scuro e il suo aspetto austero lo fa sembrare preoccupato. Aziz porta dei vestiti larghi, almeno una taglia in più. Mi hanno detto che parla inglese, ma l’interprete è qui con noi per sicurezza.

Vorrei cominciare, nel limite del possibile, da eventi recenti nella sua vita, così gli chiedo della sua infanzia in Siria. Quali erano i suoi giocattoli preferiti? L’interprete deve aver usato la parola “giochi” invece di “giocattoli” e Aziz risponde: «Giocavo a pallacanestro, ero il capitano della mia squadra. Avevo una famiglia numerosa e importante. Eravamo benestanti, e non abbiamo mai avuto problemi che mi ricordi.»

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O dolore improvviso che subentri ad ogni gioia, sempre cosparsa a questo mondo di amarezze! Tu mèta di ogni gaudio nei nostri affanni quotidiani!… Ogni nostra felicità ha per fine l’afflizione: ricordatevene, per il vostro bene, e nel vostro giorno felice tenete a mente il dolore o il male inatteso che vien dietro.

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Era cresciuto a Dar’a, nel sud della Siria, la prima città menzionata nei documenti degli Egizi circa trentacinque secoli fa. Mosè vi combatté in battaglia, ma questa è storia. Oggi, Dar’a è il luogo in cui iniziò la rivolta siriana quando quindici scolari furono arrestati per graffiti a marzo 2011.

Questa è una zona frequentata da despoti, siccità e divinità. A cento kilometri verso nord e verso sud ci sono le due capitali: Damasco e Amman. Gerusalemme non è lontana; ebrei, cristiani e musulmani camminano per le stesse strade e fanno acquisti negli stessi souks. Silenziose nelle ore calde del meriggio, vociferano al destarsi.

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Un bel giorno quei maestri mercanti decisero d’andare a Roma, non so se soltanto per affari o anche un po’ per loro svago. Il fatto è che quella volta, senza mandarvi altri, si recarono a Roma proprio loro di persona. E, dopo aver preso alloggio dove ritennero che fosse più conveniente per il loro scopo, s’intrattennero a piacer loro in quella città per un certo tempo. E così accadde che a questi mercanti siriani giungesse, arricchita di giorno in giorno d’ogni particolare, l’eccellente fama della figlia dell’Imperatore, madonna Costanza. […] «In lei è una bellezza eccelsa, senza orgoglio; una giovinezza senza immaturità o follie; in ogni sua azione, virtù è la sua guida, ed umiltà ha vinto in lei ogni superbia. Ella è lo specchio d’ogni cortesia; il suo cuore è il tempio stesso della pietà; la sua mano, generosa ministra di beneficenze.»

E tutto ciò era vero, com’è vero Iddio. Ma torniamo all’argomento. Per farla breve, dunque, questi mercanti, dopo aver veduto anche loro quella beata fanciulla, ricaricarono le loro navi e se ne tornarono tranquillamente in Siria, dedicandosi come prima ai loro negozi e passandosela bene.

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Aziz aveva studiato per diventare ingegnere civile. Si sposò, e con sua moglie ebbero cinque figli. Viaggiavano spesso. Aziz visitò la Gran Bretagna quattro volte prima della guerra. Gli piacque molto: una terra dignitosa, benestante, rispettosa e democratica. Verde. Alcuni amici suoi si trasferirono nel Regno Unito. Ora che la guerra civile in Siria durava da oltre due anni, Aziz pensava all’isola più spesso.

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Si dava ora il caso che questi mercanti fossero in grazia di colui ch’era il sultano della Siria: ogni qualvolta tornavano da qualche paese straniero, egli, pieno d’affabile cortesia, dava loro un grande ricevimento, chiedendo e domandando con fervore notizie dei vari stati e di tutte le meraviglie che potevano aver visto o udito. Questa volta, fra le altre cose, essi gli parlarono di Costanza, ma con tale nobiltà di toni e così minuziosamente, che alla fine il sultano, provando già un immenso piacere semplicemente a figurarsela nella sua mente, non ebbe altro desiderio e aspirazione che di poterla amare per tutta la vita. […]

Il sultano, dunque, convocò il suo consiglio privato e insomma, per farvela breve, manifestò il suo desiderio ai consiglieri, dicendo francamente che, se non avesse ottenuto presto la grazia di possedere Costanza, ne sarebbe sicuramente morto: gli trovassero dunque in fretta qualche rimedio per la sua vita.

Ognuno allora disse la sua, argomentando e sentenziando per ogni verso, adducendo sottilissime ragioni e parlando perfino di magia e d’impostura. Ma alla fine, per venire a una conclusione, non seppero trovar altro mezzo o altra via d’uscita che il matrimonio. S’accorsero però subito di una grave difficoltà (e con ragione, a dire il vero), dovuta all’enorme differenza tra le due legislazioni, e glielo dissero: «Nessun principe cristiano sarebbe mai contento di maritare sua figlia secondo i soavi precetti a noi insegnati dal nostro profeta Maometto.» […]

A che serve indugiare oltre? Basti dirvi che per mezzo di trattative e d’ambasciate, con la mediazione del papa, di tutta la Chiesa e di tutta la nobiltà, fu stabilito, a detrimento del maomettismo e a vantaggio della diletta legge di Cristo, quanto segue: che il sultano e i suoi baroni e tutti i suoi sudditi si sarebbero fatti cristiani, ed egli avrebbe avuto Costanza in matrimonio. […] Certo è che ad accompagnarla furono mandati vescovi, baroni, dame, cavalieri di gran nome ed altri illustri personaggi. […] I cristiani intanto toccarono terra in Siria, con un grandioso corteo solenne. […] Immensa fu la folla e splendido lo sfarzo dei siriani e dei romani al momento dell’incontro. […] Venne poi il giorno in cui la vecchia sultana ordinò, come aveva promesso, una gran festa.

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Dar’a è una città strategica, fondamentale per la difesa della capitale, così gli attacchi dell’esercito siriano e i contrattacchi dei ribelli divennero un avvenimento quotidiano.

«Tutta la mia famiglia era contro il regime» dice Aziz.

La voce a volte gli si spezza. Una breve raffica di parole in arabo è seguita da un silenzio improvviso. Sembrano mitragliatrici in combattimento serrato. Sembrano le vie della sua città oggi.

«A Dar’a, sotto attacco, le cose si complicarono» dice Aziz, soffermandosi a lungo. «Uno dei nostri figli si ammalò, e non riuscimmo a trovare le medicine in tempo. Ora ce ne restano quattro.»

Stringe la parte superiore del braccio, ondeggiando avanti e indietro. Lento e costante, come il mare. Ho visto questo medesimo movimento, questa stessa postura, in altre occasioni e in altre culture. Quando le grandi placche emotive sottopelle cominciano a muoversi in profondità, quest’ondata di dolore appare in superficie.

«Le forze dell’ordine vennero a sapere che occasionalmente ero io a informare i giornalisti stranieri, e mi arrestarono. Due volte.» Spara un’altra breve raffica di ricordi e ammutolisce di nuovo. A ondate.

Qui c’è il buio. Mi avevano detto di non chiedergli niente della prigionia.

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Insomma, per farvela corta, il sultano e tutti i cristiani vennero fatti a pezzi e pugnalati mentre sedevano a tavola, tutti all’infuori di madonna Costanza! La vecchia sultana, maledetta strega, commise con i suoi amici quell’orribile scempio, perché voleva governare lei tutto il paese. Non vennero risparmiati neppure i siriani che, seguendo il consiglio del sultano, s’erano convertiti, ma prima che si muovessero furono trucidati tutti.

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«Il mio obiettivo era raggiungere l’Inghilterra» dice Aziz, «ma tutti gli stati ci avevano chiuso le porte in faccia… Trovai il numero di un trafficante e lo contattai. Il trafficante mi chiese di incontrarci ad Alessandria d’Egitto. Quando arrivai, mi condusse a un appartamento dove c’erano già dei siriani. Tutti stavano aspettando di partire. Ci promise che avremmo intrapreso il viaggio quello stesso giorno, o il seguente. Si trattava, disse, di una mezz’oretta su un’imbarcazione veloce fino a un’altra più grande e più bella. Poi quattro o cinque giorni fino all’Italia. Costava 3.700 €.»

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Costanza, invece, venne presa e messa in gran fretta sopra una nave senza timone, alla mercè di Dio, e che s’aggiustasse da sola a ritornare dalla Siria in Italia.

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«Quel giorno non successe niente, e nemmeno il seguente. Rimanemmo nascosti in quell’appartamento. All’improvviso, una notte il trafficante arrivò e disse che erano pronti a partire. Dei furgoncini ci attendevano fuori per portarci a un paesino nei pressi di un canale. Non so dove si trovasse, ma l’acqua del canale aveva un colore diverso e puzzava di prodotti chimici. Mi dissero di sdraiarmi e mi coprirono con qualcosa.

Dopo un’ora, trasferirono tre di noi su un peschereccio che avrebbe dovuto portarci all’imbarcazione più grande. Passammo due ore navigando lungo il canale.

Era abbastanza chiaro da poter vedere l’imbarcazione quando giungemmo al mare. Era lunga venticinque metri circa. L’imbarcazione era legata a un altro peschereccio e ci dissero che sarebbe stata rimorchiata da un’imbarcazione più grande. C’erano persone armate su quel peschereccio. A quel punto era troppo tardi per cambiare idea. Non avevo altra scelta che continuare il viaggio.»

Era il 19 maggio 2013.

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O malaugurato tortuoso ascendente, per cui Marte, ahimè, irrimediabilmente cadde dal suo angolo giù nella tetra casa dello Scorpione! O tu Marte, malefico Atazir! O fragile Luna, che con infelice moto invano ti congiungi con chi non ti vuole, ben potevi rimanere invece d’andar via!

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«Non c’era posto per dormire, ma almeno per i primi due giorni il mare era calmo. All’improvviso, il cielo si oscurò, il vento sibilò, il mare si agitò. La corda che legava la nostra imbarcazione al peschereccio si spezzò. Il capitano disse che non potevamo continuare. Disse che il peschereccio aveva un problema meccanico e dovevamo tornare ad Alessandria d’Egitto. Procedemmo col vento forte. La nostra imbarcazione oscillava pericolosamente. Il capitano ci promise che avremmo trovato un’altra imbarcazione in Libia.

Dopo due giorni il vento si calmò un pochino. Il capitano ci informò che non c’era nessuna imbarcazione in Libia, ma che eravamo vicini all’Italia. Non sapevamo dove ci trovassimo. Era già il sesto giorno in mare. Avevo portato del formaggio e del pane per cinque giorni, ma riuscii a farlo durare.»

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Per giorni e per anni questa creatura navigò per tutto il mare della Grecia fino allo stretto del Marocco, dove voleva il caso. Quanti bocconi amari dovette mordere, quante volte s’aspettò di morire, prima che le furiose onde la trascinassero dove doveva approdare!

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«Entrammo nello Stretto di Sicilia al largo di Malta, e il capitano disse che c’era venuto a pescare. Come, se il peschereccio aveva un problema? Intuimmo che qualcosa era andato storto, come se fosse una nave della morte, così gli dicemmo che volevamo tornare in Egitto. Eravamo disposti a pagarlo extra solo per portarci indietro. Uno di noi si fece prendere dalla disperazione e si buttò in mare, ma gli andarono dietro e lo salvarono. A questo punto tutti noi minacciammo di buttarci in mare. Il capitano arrestò l’imbarcazione e cambiò direzione. Disse che saremmo tornati indietro e, in due giorni, saremmo giunti a destinazione.

Fummo sorpresi da un’altra tempesta. Avevamo finito le provviste di cibo, e c’era rimasta pochissima acqua. Ci diedero pane raffermo, quello che usano come esca per i pesci. Era molto duro. Dovevamo inzupparlo nell’acqua per ammorbidirlo.

Poi apparve il trafficante su un altro peschereccio, con un’altra imbarcazione a rimorchio. C’erano altri passeggeri. Moltissimi. Ci dissero che quel peschereccio ci avrebbe portato in Italia.»

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«Ma la ponga […] sulla stessa nave in cui un giorno la trovò, e la spinga lontano dalla riva, ordinandole di non farsi mai più vedere!» O mia Costanza, a ragione la tua anima ebbe paura e, dormendo, in sogno sentì d’essere in pena.

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«Ci ordinarono di salire a bordo. Eravamo quarantaquattro: uomini, donne e bambini. La nuova imbarcazione era più piccola. Non era un buon segno. Il motore fumava. Era molto pericoloso. Ci accorgemmo che dietro di noi c’era l’imbarcazione carica di giovani egiziani. Tutti minorenni.

All’improvviso, trasferirono tutti gli egiziani sulla nostra imbarcazione, erano settantacinque, oltre a noi. Non c’era spazio per muoversi. A quel punto l’imbarcazione era troppo pesante, e cominciò a riempirsi d’acqua.

L’imbarcazione iniziale cambiò direzione per tornare indietro.

La nostra procedette molto lentamente. Sebbene ci avessero detto che mancavano solo quattro ore per giungere in Italia, ci dissero che ne mancavano ancora diciassette.

Gli egiziani ci dissero come stavano le cose: secondo le leggi italiane, chiunque fosse minorenne era libero di entrare senza dover essere detenuto. Per questo, l’esercito italiano era stato informato e ci avrebbe catturato. Ci dissero che gli italiani erano al corrente del nostro arrivo e ci stavano aspettando.

Calò la notte. Dovevamo stare in piedi. Non c’era posto per sedersi o sdraiarsi.

Quando albeggiò, non c’era nessun’altra imbarcazione nelle vicinanze. Il sole picchiava. Non avevamo cibo.

Un’altra nottata. Eravamo ancora in piedi. L’imbarcazione continuava a riempirsi d’acqua.»

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Se dunque Costanza non fu uccisa nel giorno della festa, chi la salvò dall’affondare in mare?... Chi salvò Giona nelle viscere del pesce che vivo lo rigettò a Ninive? […] Fu cosa altrettanto portentosa sfamare cinquemila persone con cinque pani e due pesci! […]

Chi la salvò dall’affondare in mare?

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«Tre navi della Guardia Costiera italiana arrivarono in mattinata, ma non fecero niente, salvo circondare la nostra imbarcazione per fotografarci. Parlai col capitano italiano e gli dissi: “Aiutaci, l’imbarcazione è allagata, stiamo affondando”. E lui disse: “Prima dicci il nome del trafficante”. Rispondemmo: “Aiutateci, abbiamo fame, non abbiamo né cibo né acqua”. Ripeté: “Diteci il nome”. Rifiutammo di dire il nome. Lui disse: “Allora niente cibo né acqua”. Allora gli dissi il nome di tre persone che conoscevo a Dar’a, nessuno dei quali era un trafficante.

Ci fecero salire sulla loro nave. Era il 4 giugno. Il viaggio era durato sedici giorni.»

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Ed eccola spingersi dentro il nostro oceano e poi su, attraverso il nostro selvaggio mare. […]

Mentre appunto tornava vittorioso a Roma, navigando con gran pompa, il senatore s’imbatté, secondo quanto narra la storia, proprio con la nave alla deriva su cui stava la misera Costanza. Egli non sapeva affatto chi fosse lei o perché si trovasse in quello stato, né lei gli avrebbe mai parlato della propria origine, neanche a costo di morire.

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«Ci portarono al centro detentivo a Lampedusa.

Ci misero in fila in un corridoio stretto e ci dissero che dovevano prendere le nostre impronte digitali. Gli egiziani conoscevano il sistema: acconsentirono subito e furono rilasciati. Noi siriani domandammo perché avevano bisogno delle impronte e ci risposero che dovevano controllare se fossimo terroristi. Ma noi avevamo carte di identità, passaporti… Così rifiutammo.

Per dieci giorni non mangiammo, avevamo fame, ma ci dissero che ci avrebbero sfamato se avessimo dato le impronte digitali. Non volevamo farlo perché le nostre famiglie erano ancora là, e gli italiani avrebbero rivelato che eravamo scappati nel momento in cui fornivano i nostri dati personali alle autorità siriane.»

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Lei lo implorò nella propria lingua d’aver misericordia e di strapparle via la vita per liberarla dalla pena in cui si trovava. […] quand’ebbe finito di rovistare, portò l’infelice donna a terra. Lei allora s’inginocchiò e rese grazie a Dio; però non volle dire a nessuno chi fosse, né in bene né in male, neanche a costo della vita.

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«Gli italiani portarono via le donne e i bambini e ci lasciarono a noi uomini siriani in corridoio. Poi arrivò un comandante della polizia, il cui volto non dimenticherò mai. Ordinò ai suoi uomini di pestarci e presero le nostre impronte digitali con la forza.

Dopodiché ci diedero cibo e acqua.

Arrivò una donna dell’Agenzia ONU per i Rifugiati. Le dicemmo del pestaggio e lei non ci credette. Solo dopo che interrogò la polizia italiana e loro confermarono la nostra storia, tornò da noi e ci disse che siccome era accaduto davvero, avremmo potuto andare in tribunale per un’udienza, ma era improbabile che avremmo ottenuto qualcosa. Era meglio fare domanda per l’asilo politico.

Poi ci disse che per la domanda d’asilo avevano ancora bisogno delle nostre impronte digitali. Era una procedura a parte. Rifiutammo. Ci dissero che in quel caso avremmo dovuto tornare in Siria. Allora alcuni dei miei amici acconsentirono e continuarono il viaggio: alcuni verso la Svezia, alcuni verso la Germania, altri verso il Regno Unito, ma io ho famiglia e sono tornato in Siria. Mi dissi: ci pestano in Siria, ci pestano in Italia… Che differenza c’è?»

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[…] Alla andò col senatore a casa sua per veder chiaro in questo sorprendente caso. Il senatore rese ad Alla grandi onori e mandò subito a chiamare Costanza. […]

Appena vide la sua sposa, Alla le andò incontro affabilmente e non riuscì a trattenere le lacrime per la commozione, riconoscendola immediatamente al primo sguardo. Lei invece, per il dolore, rimase muta come un albero, col cuore chiuso nella sua angoscia, pensando ancora alla crudeltà con cui l’aveva trattata. Per ben due volte gli svenne davanti agli occhi, mentre egli piangendo si scusava pietosamente. […] Singhiozzarono e penarono a lungo, prima che i loro cuori addolorati si calmassero.

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«La mia famiglia pensava fossi morto. Era il 19 giugno quando il mio cellulare riprese a funzionare. Ero in Turchia. Chiamai a casa e mi dissero che mia moglie era stata arrestata con l’accusa di aiutare i ribelli. È un’infermiera, e di certo non era vero. Anche uno dei miei fratelli era in prigione.

Entrai in Siria clandestinamente. Dopo un po’ di tempo, mia moglie fu rilasciata. Mio fratello era ancora in prigione e l’altro mio fratello si era unito ai ribelli.»

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Chi può dire tutta la commovente gioia di quei tre al momento del loro incontro? Ma è ora ch’io metta fine a questa storia, il giorno fa presto a passare ed io non voglio più annoiarvi.

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«Non potevo restare in Siria. Andai da un altro trafficante. Pagai 4.500 € per viaggiare su un camion dalla Turchia all’Inghilterra. Eravamo in sei, nascosti dietro a degli scatoloni. Ogni notte uscivamo a prendere una boccata d’aria e sgranchirci le gambe. Alcuni passeggeri andarono in altri paesi, non so dove. Alla fine ero rimasto da solo nel camion. Uscii solo quando eravamo ben inoltrati in Inghilterra, a Nottingham. A quel punto mi sentivo malissimo. Soffrivo di calcoli renali.

Quando arrivai, chiamai un amico che vive qui per venirmi a prendere. Nel suo appartamento mi ripresi in un paio di giorni, poi feci domanda per l’asilo politico.

Mi misero in un centro detentivo. Ero molto malato, e ogni giorno chiesi di essere rilasciato. Ci vollero cento giorni per rilasciarmi, nonostante l’aiuto di diverse organizzazioni.»

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E tutti vissero in virtù ed opere sante, senza mai più separarsi, e così camparono finché la morte non li divise. Ed ora, statevi bene, il mio racconto è terminato.

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La storia di Aziz non è terminata. La sua famiglia è a Dar’a e sua moglie si sta spazientendo. Adesso lui teme che prenda i figli per imbarcarsi su una delle navi della morte.

La nostra conversazione è terminata. Aziz si alza per prendere un bicchiere d’acqua dall’altro tavolo, e solo adesso mi rendo conto che i suoi vestiti sono della taglia giusta, ma che si rannicchia quando è seduto, come se si aspettasse di essere colpito.

Traduzione di Elena Bossi
La storia di Costanza è tratta da I Racconti di Canterbury (Mondadori, 2013).