Nato in Nigeria nel 1984, Inua Ellams è un poeta, drammaturgo, performer, graphic artist e designer di fama internazionale. È ambasciatore dell’associazione Ministry of Stories e ha pubblicato diversi libri di poesie. Le sue opere teatrali hanno avuto successo all'Edinburgh International Theatre Festival e al National Theatre di Londra. The Unaccompanied Minor’s Tale (Refugee Tales, 2016) è frutto di una serie di laboratori con gruppi di minori non accompagnati residenti a Canterbury.
Il racconto dei minori non accompagnati
Un attimo prima, Dani aveva accontentato la richiesta di Senebesh. «Raccontami una storia divertente» aveva chiesto e Dani si era schiarito la voce. «Una volta, una coppia di arabi andò a Londra in luna di miele…» «Mi piace questa storia» lo interruppe Senebesh. «Sst! Fammi parlare!» Dani continuò: «La moglie parlava poco l’inglese. Quando arrivarono all’hotel, il concierge disse loro: “Qualsiasi cosa vogliate, chiamatemi, io son qui.” La sera, quando il marito era andato a fare la spesa, un topo scorrazzò per il pavimento e la moglie si mise a strillare. “Pronto! Pronto!” Aveva chiamato la reception. “Che c’è?” chiese l’uomo. La donna non sapeva la parola giusta, allora chiese: “Ha presente Tom and Jerry, il cartone animato?” “Sì” disse l’uomo. “Jerry, non Tom, Jerry è qui!”»
Anni dopo, se chiedi a Senebesh com’era, il sorriso che le paralizza le labbra è frutto di un ricordo, questa strana gioia, ma svanisce in qualcosa di oscuro.
Senebesh aveva conosciuto Dani in un campo profughi a Gedaref qualche mese prima, ed era riuscita a intravedere il ragazzino di quattordici anni sotto quell’aria da spaccone. Lui chiedeva l’acqua con arroganza, ma quando lei lo guardava storto attraverso la nube di polvere, cambiava atteggiamento. La faceva ridere quando tracannava gorgogliando, la gola come un tubo di scarico. Dopodiché, le chiedeva se volesse ascoltare le sue storie e la intratteneva per un’oretta. Da allora, Senebesh lo cercava per sentirne altre. Dani era attento, affascinante, ma Abbas era sventato.
Sotto la jeep arrugginita sentivano la polizia sudanese avvicinarsi, strascicando i piedi. «Venite fuori! Sappiamo che siete qui!» Senebesh premette la bocca per terra mentre Dani bisbigliava: «Jerry! Jerry!» E quando lei non ce la fece più a trattenersi, udirono le urla di Abbas: «Non avete ladri più importanti da catturare? Poliziotti inutili! Volete qualcosa da fare? Acchiappatemi, se ci riuscite…» e corse via mentre gli davano la caccia. «Te l’avevo detto! Ha un tempismo perfetto!» disse Dani mentre Senebesh si scrollava la polvere di dosso, volgendo lo sguardo verso il mercato di Khartoum. «Per qualche dollaro in più» disse Dani, citando uno dei suoi film preferiti, «poi domani partiamo per la Libia.»
Abbas aveva organizzato tutto. Aveva un anno in più di Senebesh, ma, in quanto a vita di strada, era più maturo di dieci anni. Pianificò la fuga dal campo, con la promessa: «Mai più code per pane raffermo, mai più tende fatte di jeans, mai più lavarsi nel fiume, mai più diarrea a causa del cibo…venite con me, attraverseremo il deserto insieme! Noi contro il mondo!». «Come i tre moschettieri?» chiese Dani, i cui occhi si illuminarono. «Sì!» e Abbas aggiunse: «…chiunque essi siano.» Erano un team davvero efficiente, si alternavano a lavorare come lavapiatti nei ristoranti, pulire taxi, vendere stoffa, frutta e qualsiasi cosa potessero sollevare nella calura di Khartoum, mentre Abbas teneva i poliziotti alla larga: soccombevano alle loro pretese di mazzette, li insultavano quando ne volevano ancora, li usavano per tenere a bada rozzi trafficanti prepotenti ed esigevano lauti compensi per organizzare il viaggio attraverso il Sahara. Tutto ciò era un lavoro a tempo pieno e Dani era riconoscente ad Abbas perché stava al gioco. Mesi dopo, di notte, nel deserto, mentre Abbas versava benzina nelle borracce per evitare che se le scolassero, per far sì che l’acqua durasse, Dani ripeteva a se stesso che Abbas aveva buone intenzioni. Doveva fidarsi di lui.
Senebesh amava il campo profughi a Gedaref. Anni dopo, nella solitudine delle strade inglesi, le sarebbe mancata questa comunità, il senso di sofferenza comune, persino le occasioni in cui i poliziotti e i ladri riportavano le donne che avevano sequestrato, sanguinanti, tumefatte, con uno straccio in mezzo alle gambe, ma il campo le aiutava a guarire e vendicarsi. La notte in cui fu quasi portata via, trovò i ragazzi per dar loro i suoi risparmi. «I tre moschettieri» disse. Abbas le chiese perché aveva lasciato l’Eritrea, sebbene sapesse la ragione. Era la stessa per moltissimi: la fede. Solo l’Islam ortodosso e il Cristianesimo erano permessi in Eritrea. I suoi familiari erano pentecostali e organizzavano riunioni con altri confratelli finché un vicino di casa aveva informato la polizia eritrea. Perquisirono la casa, arrestarono suo padre, ammazzarono sua madre, sua sorella sparì, la casa bruciò e un mandato d’arresto fu emesso a suo nome. Così Senebesh partì. Quando Abbas chiese a Dani perché aveva lasciato l’Eritrea, rispose che non voleva unirsi all’esercito. I fratelli più grandi e il padre erano morti facendo il servizio militare obbligatorio e lui aveva scelto di vivere. Quando chiesero ad Abbas le sue ragioni per aver lasciato il Sudan, rise nella leggera brezza notturna. «La prossima volta» disse. «Ma domani andiamo a Khartoum. Tra due mesi, saremo in Libia. Sorella mia…» disse a Senebesh, «non puoi più restare qui.»
1. Burro di cacao per Senebesh. 2. Guanti per le notti fredde. 3. Occhialini per le tempeste di sabbia. 4. Una tanica di benzina. 5. Un autista veloce… Abbas, che aveva trovato l’autista con la miglior reputazione e aveva racimolato le provviste per la traversata di un mese, stilò un’altra lista: «Regole di Sopravvivenza», bisbigliò salendo sul camion. 1. La gente impazzisce nel deserto. Non fidarti di nessuno. 2. Ottantotto persone su ogni camion. 3. La maggior parte dei passeggeri si siederà sul tettuccio. 4. Se ti addormenti, cadrai. Non dormire. 5. Se sei in mezzo, litigherai con gli altri passeggeri. 6. Tutti gli autisti sono vagabondi armati di pistola. Prendono le donne e ne fanno quello che vogliono. 7. Il posto migliore è all’esterno, di fianco al finestrino dell’autista. 8. Il viaggio ti sembrerà un film incredibile, ma se muori, non tornerai indietro. 9. Credi nel buon Dio. 10. Dura sempre di più di quello che pensavi.
Sei settimane dopo, a Zuwara in Libia, aspettando di attraversare il mare per giungere in Italia, Dani avrebbe messo in discussione l’operato di Abbas. Senebesh avrebbe spiegato il suo sacrificio, ma Dani non avrebbe capito. Senebesh avrebbe scritto la propria lista. Sarebbe diventata il suo mantra. Gli avrebbe detto: «Questo è quello che è successo.»
1. Non c’era il GPS. 2. L’autista si smarrì nel bel mezzo del deserto. 3. La terza volta che il camion non si mise in moto, gli uomini dovettero spingerlo. 4. Quando il motore ripartì, l’autista riprese a guidare lasciandosi alle spalle alcuni uomini. 5. La quarta volta che il camion non ripartì, Abbas si rifiutò di spingere. 6. L’autista avrebbe voluto alleggerire il carico. 7. L’autista voleva abbandonare una donna anziana. 8. Abbas si batté per tenerla a bordo. 9. L’autista desiderava Senebesh. 10. L’autista diede un calcio alla borraccia di Dani. 11. L’autista disse ad Abbas di scegliere. 12. Abbas non ci riuscì, quindi scelse se stesso. «Risparmia le lacrime, sorella, hai bisogno d’acqua» disse e li salutò con la mano finché svanirono, un puntino tra le dune.
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«Raccontami una storia» lo implorava Senebesh. Il camion era appena arrivato a Tripoli e Dani era sotto shock. Senebesh non capiva se stesse ancora visualizzando le dozzine di corpi che avevano oltrepassato nel deserto, le mosche che si nutrivano di carne putrefatta, o se fosse ipnotizzato dall’acqua del rubinetto. Avevano visto tre persone morire di sete sul camion, udito altri piangere per la disperazione, di notte, in preda alle allucinazioni, supplicando birre e bevande fresche prima che il silenzio si impadronisse di loro. Era in piedi davanti al rubinetto, sorseggiando e riempiendo la borraccia di continuo, rifiutando di muoversi, custodendo ogni goccia, senza capacitarsi di come una tal risorsa potesse essere di nuovo gratuita. Senebesh gli prese la borraccia dalle mani con gentilezza. «Dani, la storia!» Dani sbatté le palpebre per diversi secondi provando a concentrarsi. «Va bene» disse. «C’era un ragazzo povero che era solito passare sotto un albero sulla sponda di un ruscello, tirando sassi ai frutti. Quando cadevano, mangiava le succose arance. Un giorno, s’imbatté in un muretto sul ciglio della strada, l’albero si trovava dall’altra parte e c’era un uomo a fargli la guardia. Il ragazzo implorò l’uomo di dargli un frutto, ma lui rifiutò, imprecando contro il ragazzo. Disperato, il ragazzo tirò sassi nella speranza che l’uomo afferrasse i frutti per aria e li lanciasse dalla sua parte, ma l’uomo mangiava i frutti e tirava i sassi al ragazzo. Allora il ragazzo ebbe un’idea. Tirò un grosso sasso ma si assicurò di sbagliare la mira, e sebbene quasi lo colpì, rotolò nel ruscello. L’uomo era così arrabbiato che afferrò un’arancia e la tirò, il ragazzo la acchiappò e disse: “La ringrazio”, e corse via mangiando, ridendo, mangiando e ridendo» disse Dani, ridendo della propria storia. «Ti ringrazio» disse Senebesh, e tra sé e sé rendeva grazie a Dio perché Dani aveva ritrovato un barlume del suo solito modo di fare. «Hai fame?» gli chiese.
Mangiarono pollo fritto (uno intero a testa) durante il viaggio da Tripoli al porto dei pescatori di Zuwara, meravigliati ad ogni boccone caldo, masticando con calma, riguardo e convinzione. Degli ottantotto passeggeri, diciannove morirono o furono abbandonati nel deserto. Tra i sopravvissuti c’erano diciotto nigeriani, nove ghanesi, tre ivoriani, undici siriani e altri eritrei. Alcuni avevano perso zii, fratelli, sorelle, persino i propri figli attraversando il deserto e coloro che ce la fecero rimasero impressi nella memoria di Senebesh. Conosceva i loro nomi e pianse al momento della separazione. Aliyah, che aveva perso la figlia nella traversata, pianse pure lei, inconsolabile, non volendo separarsi da Senebesh. «Mio fratello si è messo in viaggio prima di me, è a Lampedusa, devo solo raggiungerlo.» «Ma non hai ancora il denaro per la traversata in mare» disse Senebesh. «È facile» rispose, chinando il capo, gli occhi guizzanti in direzione del gruppo di trafficanti, che la guardavano con desiderio. Poi fissò di nuovo lo sguardo sul vasto volto di Senebesh. Senebesh guardò altrove, aveva capito cosa voleva dire. Aliyah racimolò denaro sufficiente in quattro giorni. Gli altri avrebbero dovuto lavorare per mesi in Libia, dormire nei magazzini al porto, oltre i quali giace Lampedusa, l’isola-prigione italiana, il luogo dove i rifugiati vengono detenuti, la prima fermata in Europa.
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«Sai, lo chiamano il deserto blu» disse Dani, lasciandosi cadere e svegliando Senebesh. «Un altro deserto?» gridò al di sopra del rumore della barca a motore. «È altrettanto afoso, non cresce nulla ed è infinito.» «Quanto manca?» «Sessantadue ore» rispose Dani. «Stiamo navigando da solo dieci ore?». Dani si strinse nelle spalle mentre Senebesh si voltò cercando la costa libica, una striscia appena visibile all’orizzonte. Tra le quattrocentotrenta persone stipate sul gommone, un uomo senegalese dall’aspetto austero, il capitano, per così dire, si rivolse a lei sbraitando: «Cerca la trivella, non torniamo in Libia, non voltarti indietro». Senebesh diede un’occhiata al telefono satellitare con il localizzatore GPS che il capitano aveva in mano. Dopo lezioni base di navigazione, i trafficanti glielo avevano dato, gli avevano detto di navigare verso una trivella nei pressi di Lampedusa, che gli operai avrebbero avvertito la Guardia Costiera italiana, che l’intenzione non era raggiungere l’isola, ma essere salvati, e i gommoni servivano a questo. «Cosa stai guardando?» il capitano sbraitò di nuovo. «Niente» disse Senebesh, mentre Dani si spostava per porsi in mezzo a loro due, guardando male l’uomo. «Lasciala in pace! Hai cose più importanti a cui pensare!» «Quali?» sussurrò Senebesh, che impallidì mentre Dani spiegava. «Siamo in troppi su questo gommone. È tenuto insieme con la colla, i trafficanti usano di tutto. La colla si sta sciogliendo. Quell’uomo laggiù sta strizzando la sua giaccia inzuppata d’acqua sulle parti scollate, deve spruzzarci l’acqua sopra, bagnarle in questo caldo infernale.» «Quanto tempo durerà?» chiese. «Un paio di giorni, non di più…» «Ma non è abbastanza tempo!» «Ecco perché è nervoso» disse Dani. «La Guardia Costiera è la nostra unica speranza.»
Senebesh non chiuse occhio quella notte. Non ci riusciva. Contò le stelle sul Mediterraneo, sintonizzò il respiro con quello di chi sonnecchiava, sgranocchiò la sua porzione di biscotti e l’enjera ormai stantia, e quando gli veniva in mente, spruzzava l’acqua del mare sulla giacca sebbene le temperature troppo fredde non permettevano alla colla di sciogliersi. Divenne l’unica guardiana della giacca, un falco nel deserto blu. Il terzo giorno, quando il gommone aveva troppi fori e cominciò ad affondare, e il debole motore iniziò a far fatica, i delfini apparvero tutt’intorno a loro, tenendo testa al gommone, saltando fuori dall’acqua e giocando mentre l’imbarcazione arrancava verso Lampedusa. Rimasero un’immagine indelebile nella mente di Dani: li considerava angeli marini, un segno che sarebbe andato tutto bene, e lo pensò proprio nel momento in cui la Guardia Costiera italiana sopraggiunse, comunicando tramite radio e allontanandosi di nuovo a tutta velocità. Le onde cullavano il fragile gommone e sommersero il motore, che si arrestò con un ultimo colpo, proprio quando Aliyah trovò suo fratello.
A prima vista pensarono che fossero indumenti, scarti di altri profughi, ma più si avvicinavano, più si resero conto che, intrappolati nella stoffa, c’erano i corpi di rifugiati come loro, inzuppati d’acqua, alcuni irrigiditi, altri tumefatti. Indietreggiarono tutti insieme, provarono a distogliere lo sguardo dai cadaveri ma non ci riuscirono. Cominciavano a distinguere i volti. Alcuni sembravano sereni, serafici, addormentati, come se potessero svegliarsi se Senebesh si fosse allungata per sfiorarli. Alcuni avevano degli incavi al posto degli occhi dove i pesci si erano abbuffati, altri avevano le dita mangiucchiate fino all’osso o mutilate, e più si avvicinavano a Lampedusa, più cadaveri trovavano sulla traiettoria del gommone. Ad ogni tonfo e spruzzo d’acqua, ad ogni cadavere, ad ogni corpo affogato che sbatteva contro il gommone, la gente trasaliva. I delfini erano svaniti, e mentre Aliyah guardava, temendo il peggio, vide suo fratello galleggiare, gli occhi intatti, rivolti al cielo, esanime. Si buttò a mare per raggiungerlo. Gli altri le gridarono di tornare sul gommone. Senebesh provò a gettarsi dopo di lei ma Dani l’acchiappò in tempo. Nel subbuglio, il gommone cominciò a oscillare, imbarcando ancora più acqua, accelerando il naufragio finché furono sommersi dal vasto mare aperto. All’orizzonte, udirono le sirene della Guardia Costiera italiana che aveva imbarcazioni più grandi a rimorchio e si dirigeva verso di loro, che stavano facendo del loro meglio per rimanere a galla, gorgogliando, ingoiando e sputando acqua di mare, sopraffatti dal deserto blu.
Due ore dopo, sull’isola di Lampedusa, Senebesh avrebbe osservato il capitano, in piedi, immobile, sotto shock. Aliyah avrebbe tenuto il corpo di suo fratello tra le braccia. Senebesh avrebbe cercato Dani tra i sopravvissuti senza trovarne traccia. Le guardie costiere avrebbero scosso la testa in risposta alle sue domande su ulteriori ritrovamenti, e lei avrebbe perso l’appetito, non avrebbe mangiato niente.
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Traduzione di Elena Bossi